Uomini renna e riti sciamanici.

Sono rimasti in poco più di duecento e vivono nell’estremo nord della Mongolia, al confine con la Siberia, in una delle terre più fredde del pianeta. Le renne sono gli unici animali domestici capaci di sopravvivere a condizioni tanto estreme, dove le temperature invernali possono raggiungere – 50°c. Proprio da questi straordinari animali deriva il nome del popolo degli Tsaatan, “uomini renna” in lingua mongola.
Da Môrôn, minuscola cittadina all’estremo nord della Mongolia, sono stati necessari due giorni di viaggio per raggiungere Tsagaan Nuur, villaggio principale del popolo Tsaatan, dove si incontrano i pastori quando scendono dalle colline. Con me e il mio autista c’è Nara, guida locale conosciuta a Môrôn, che ci aiuterà a comunicare con la gente del posto. Durante il trasferimento abbiamo percorso piste che si perdono tra boschi e pietraie, abbiamo guadato fumi dove la forza dell’acqua porta con sé grossi tronchi di larici siberiani e abbiamo lasciato che il nostro autista percorresse da solo alcuni ponti traballanti, in modo da alleggerire il fuoristrada carico di taniche di combustibile.
Ora mi sento lontano dal mondo, catapultato in un’altra dimensione temporale. Intorno a me solo tende teepee, le stesse degli “indiani” nordamericani, i parenti più prossimi degli Tsaatan. Secondo gli antropologi furono i loro antenati ad attraversare lo stretto di Bering ventiquattromila anni fa, durante l’ultima glaciazione, cioè quando l’Asia e l’Amica erano uniti, e a colonizzare per primi il nuovo continente.
Insieme a Nara andiamo in cerca del capovillaggio per ottenere il suo permesso per fotografare gli accampamenti. È un uomo anziano dai lineamenti duri, scolpiti dal vento e dal freddo. Dopo esserci presentati offriamo i doni che abbiamo portato con noi. Li osserva, poi ci ringrazia e dice che siamo stati fortunati perché oggi sono scese diverse famiglie dalle colline, con le loro renne, in occasione della festa comunitaria annuale che sta per iniziare e che durerà ancora due giorni. A breve lo sciamano terrà una danza propiziatoria per la stagione estiva che rappresenterà il rito di inizio della manifestazione. L’incontro è previsto in un grande prato non lontano dal villaggio dove si radunerà tutta la gente. Dico a Nara di chiedere se potrò fotografare. Con un semplice gesto della testa il capovillaggio mi lascia intendere che non ci sono problemi.
Torno al fuoristrada, preparo l’attrezzatura fotografica e con la mia guida seguiamo la gente che si sta dirigendo verso l’area destinata alla cerimonia. Il sole è già tramontato dietro le colline e la luce sta per abbandonarci. Tutti i presenti sono disposti in cerchio intorno ad una catasta di legna a forma conica alta un paio di metri. Regna un silenzio inverosimile, interrotto solo dal verso di un uccello notturno. Intanto il buio totale rende sempre più nitida la visione delle stelle. Dal bosco sopraggiunge all’improvviso un rumore di campanelli. Si avvicina fino a raggiungere il cerchio degli spettatori che si mettono in movimento per creare un varco. Dopo qualche istante dal centro del cerchio inizia a vibrare il suono di un tamburo che, trasportato dall’aria, penetra direttamente nei polmoni. Il ritmo, lento e cadenzato, sembra simulare il battito del cuore. Poi inizia il canto struggente di una voce stridula e profonda al tempo stesso. Provo a scattare una foto, ma il soggetto è troppo distante. Attendo qualche istante e decido di abbandonare la mia postazione per raggiungere il centro del cerchio. Sono vicinissimo allo sciamano, però non riesco a vederlo e tantomeno a inquadrarlo per via del buio. Posso solo seguirlo grazie al suono del suo tamburo. Scatto una foto col flash che illumina tutta la sua figura, ma il riflesso della luce mi rende totalmente cieco e disorientato per diversi secondi. L’intensità del flash che penetra nel buio non concede il tempo necessario alle pupille per reagire, così ad ogni scatto perdo la vista e il senso dell’equilibrio per alcuni secondi. Nel tentativo di trovare una soluzione, provo a chiudere gli occhi per un istante ogni volta che premo il pulsante di scatto. Sembra funzionare, anche se è una manovra tutt’altro che istintiva per un fotografo. Rimango quindi vicino allo sciamano che continua a suonare il suo tamburo. Seguo il mio istinto e scatto le foto quando sento maggiore intensità nel ritmo. È come se danzassi insieme a lui, lo seguo nelle sue piroette, nei suoi movimenti ondulatori. Sono stupito che nessuno dei presenti protesti perché occupo anch’io il centro del cerchio. Il rito dura quasi un’ora e si conclude con la catasta di legno che prende fuoco. Le fiamme, tanto alte che sembrano raggiungere il cielo, illuminano tutti i presenti che spezzano il cerchio e si mescolano tra loro. I due capivillaggi si incontrano di fronte al fuoco, si scambiano alcuni doni e brindano con una tazza di latte di renna. Riprendo la scena e mi allontano in cerca del mio zaino fotografico che avevo abbandonato sul prato prima di iniziare a fotografare. Insieme allo zaino trovo anche Nara che si è preoccupata di custodirlo per tutto il tempo. Mentre sono inginocchiato sull’erba, intento a riordinare l’attrezzatura fotografica, una mano si appoggia sulla mia spalla. Mi volto e riconosco l’abito blu dello sciamano che, dopo aver sollevato la sua maschera, dice alcune parole in lingua tsaatan. Mi rivolgo verso Nara chiedendole di offrire le mie scuse per averlo disturbato, mentre penso alle eventuali motivazioni plausibili che potrebbero permettermi di riportare a casa la pelle. Ma Nara mi anticipa traducendo le parole dello sciamano. Sono inaspettatamente parole di ringraziamento nei miei confronti. Dice che il rito, e le sue richieste, saranno sicuramente ascoltati dagli spiriti perché abbiamo eseguito insieme il cerimoniale. Aggiunge che anche io ho danzato insieme a lui e che le luci che emetteva la mia macchina fotografica hanno certamente richiamato l’attenzione degli spiriti. Infine ci invita a unirci a lui la sera successiva per assistere a una cerimonia privata durante la quale dovrà curare alcuni malati. Accettato l’invito, poi ci salutiamo con una pacca sulla spalla e ci scompariamo entrambi nel buio più profondo della taiga siberiana.

 

Il momento dello scatto

Ricorderò per sempre quella serie di scatti come tra i più impegnativi della mia vita. Sapevo che sarebbe stata un’occasione unica e che non mi sarei mai perdonato un errore. Non conoscevo l’ambiente e tantomeno le condizioni che avrei trovato. Sapevo solo che avrei dovuto improvvisare. Realizzai immediatamente che per ottenere dei buoni scatti sarei stato costretto ad abbandonare la mia posizione in mezzo alla gente per avvicinarmi allo sciamano, col rischio di essere cacciato impietosamente dalla cerimonia. Inoltre non avevo idea del tempo che sarebbe durato il rito: poteva terminare dopo trenta minuti, ma anche solo dopo trenta secondi e l’incognita aumentava ulteriormente l’ansia. Impostai la macchina fotografica in modalità semiautomatica (MODO in priorità di diaframma) in quanto sapevo che difficilmente gli automatismi avrebbero sbagliato in quelle condizioni, così io potevo concentrarmi totalmente sul soggetto e sui suoi spostamenti. I tenui bagliori rossi emessi dall’infrarosso del flash rappresentavano l’unica fonte luminosa che mi permetteva di inquadrare il soggetto. Era però grazie al suono del tamburo che riuscivo a indirizzare correttamente l’obiettivo. Per la prima volta mi trovai nella difficile situazione di fotografare completamente alla cieca, con l’ulteriore vincolo che mi imposi sul realizzare un contenutissimo numero di scatti per non risultare troppo invadente.
Contro ogni previsione il rito durò più di quarantacinque minuti, durante i quali non cessai mai di muovermi intorno allo sciamano. Terminai stremato, non solo per la sessione fotografica e per la tensione, ma anche per la stanchezza accumulata in quei due giorni di viaggio necessari per raggiungere Tsagaan Nuur, uno dei villaggi più remoti del pianeta. Scattare una fotografia non significa solo pigiare con un dito sul pulsante dell’otturatore; in ogni foto c’è un viaggio, un incontro, un imprevisto, è il risultato di tutto ciò che l’ha preceduta e che porterà per sempre con sé.

 

Dati tecnici

Data: 24/06/2007
Corpo macchina: Nikon D2x
Obiettivo: Nikon 17/55 f2,8
Lunghezza focale al momento dello scatto: 55mm
Apertura diaframma: F 8
Tempo otturatore: 1/30 sec.
Compensazione esposizione: 0
Sensibilità sensore: ISO 800
Flash: sb 800 modalità TTL (compensazione +/- 0)
Modo di ripresa: A (priorità di diaframmi)

 

Viaggia con Davide Pianezze: www.fattoreulisse.com