Un orologio “umano” nel deserto di sale più grande del mondo

A 3.650 m.s.l.m. e con un’estensione di 10.660 km², il salar de Uyuni in Bolivia è il lago salato più grande al mondo. È forse anche l’unico luogo dove ci si sente sospesi tra due elementi statici, privi di forme e dimensioni. La linea dell’orizzonte, lontanissima, crea una simmetria perfetta tra la distesa sconfinata e piatta di sale e la cupola blu del cielo, intenso e surreale.
Partiti dal Cile due giorni fa abbiamo percorso le strade sterrate delle Ande occidentali, tra lagune colorate e deserti d’altura, superando spesso i 5.000 metri di altitudine. Sopra di noi solo i condor, il rapace più grande al mondo considerato animale sacro sia dalla civiltà Inca che dalle popolazioni indigene di oggi. Pe la religione andina in condor è il messaggero che osserva ciò che accade sul mondo terreno e lo comunica alle divinità del mondo superiore.
All’interno del salar sembra di galleggiare su una distesa infinita di nuvole, priva di piste e riferimenti. Da quando abbiamo iniziato l’attraversata, Raul, il mio autista, non ha mai accennato a un minimo cambio di direzione e non ha mai girato lo sguardo per orientarsi. Resta per me un mistero, come, dopo ore e ore di guida abbia raggiunto l’Isla del Pescado, minuscolo, nonché unico, affioramento roccioso circondato da centinaia di chilometri di sale. Come una freccia scagliata da un arco ha centrato l’obiettivo senza mai vederlo, se non quando ormai gli eravamo addosso.
Con l’isola alle nostre spalle la direzione torna ad essere del tutto immaginaria. L’effetto “fatamorgana”, dovuto al calore che si solleva dal sale, fa confondere la fantasia con la realtà. Si vedono branchi di vigogne che si rincorrono e stormi di fenicotteri che decollano, ma nella realtà c’è solo il vuoto. Poi un puntino rosso verso destra, nitido, fisso, sospeso nel nulla. Chiedo a Raul se anche lui riesce a vederlo o se è l’ennesimo frutto della mia fantasia. Abbassa gli occhiali da sole, gira la testa, stringe gli occhi e annuisce. Poi risolleva gli occhiali, afferra il volante e cambia direzione. Il puntino rosso si fa sempre più evidente e inizia a prendere una forma famigliare. Si tratta della cabina di un camion dietro la quale si nasconde un parallelepipedo alto non più di un metro e formato da tre pareti di sale e un tetto in plastica. Si trova al centro di un cerchio dal diametro di circa cinquanta metri. L’intera area del cerchio è più bassa di almeno una spanna rispetto alla superficie planare del salar. Seduto su uno sgabellino e protetto dalla tettoia in plastica, appare l’artefice dello scavo. Alza una mano in segno di benvenuto e ci invita ad andargli vicino. Dice di non poterci offrire nulla perché ha con sé il minimo necessario per sopravvivere fino a sera. Sta riposando, ma tra poco riprenderà la sua attività che terminerà col calare del sole e l’arrivo del gelo. È un intagliatore di mattoni di sale e ha trascorso gli ultimi quindici anni in questa zona, spostandosi a volte di qualche chilometro. Quasi tutti gli alberghi di sale che si affacciano oggi sul salar sono stati costruiti con i suoi mattoni, bianchi con striature marroni. Ogni striatura testimonia l’alternarsi delle stagioni: le piogge estive lavano il sale rendendolo candido, mentre il vento dei mesi secchi riporta la terra scura della cordigliera. Mentre mi parla noto una forte similitudine tra il colore dei mattoni e quello delle sue mani: il palmo chiarissimo, per via dello spesso strato calloso dovuto al faticoso lavoro, contrasta in modo evidente con il dorso scuro bruciato dal sole.
Indossato il passamontagna e impugnato un particolare piccone con la punta a forma di ascia, si fa spazio tra me e Raul e riprende a lavorare. Arriva sul perimetro del cerchio, solleva l’attrezzo e con precisione chirurgica lo lascia cadere a venti centimetri di distanza dal bordo per una profondità di altri venti centimetri. Poi retrocede, lo risolleva fin sopra la testa e lo lascia cadere al di sotto del taglio appena fatto per continuare la stessa traccia. Gli chiedo come faccia a fermarlo sempre alla stessa profondità. Dice che è il peso dell’attrezzo a definire la profondità e che basta lasciarlo cadere senza spinta per incidere la crosta di sale di venti centimetri. Il suo compito è “solo“ quello di sollevarlo e guidarlo in caduta in modo da proseguire la linea iniziata. Concluso ogni giro il cerchio si allarga di quaranta centimetri. Continuerà così fino a quando non troverà una consistenza differente della crosta di sale. Solo allora si sposterà di qualche chilometro, dove innalzerà la sua casupola e inizierà a tracciare un nuovo cerchio che col passare del tempo diventerà sempre più grande per poi essere nuovamente abbandonato.
Tento di sollevare il piccone che risulta incredibilmente pesante e impossibile per me da maneggiare. Mi rendo conto di quanta forza, energia e soprattutto bisogno di lavorare siano necessarie per trascorrere tutta la vita ripetendo quei movimenti in un ambiente tanto severo.
Mentre ci allontaniamo immagino la scena vista dal cielo dove l’uomo si muove lentamente in senso circolare, come la lancetta dei minuti, mentre i colpi del piccone scandiscono i secondi di un immenso orologio tondo e bianco. Chissà se il condor parlerà alle divinità del mondo superiore di un omino che trascorre la sua vita a intagliare mattoni o di chi è stato destinato a segnare il tempo di un luogo dove il tempo sembra essersi fermato.

Il momento dello scatto

Chiesi al signore se potevo fotografarlo mentre lavorava. Oltre a cogliere i dettagli del soggetto volevo evidenziare la nitidezza della linea dell’orizzonte ed inserire altri dettagli nell’immagine per contestualizzarla. Iniziai a muovermi in cerca di un’inquadratura soddisfacente, scattando nel momento in cui il piccone raggiungeva la massima altezza. Le condizioni della luce, intensissima a quelle altitudini soprattutto durante le ore centrali della giornata, mi permisero di lavorare alla minima sensibilità del sensore (ISO 200) in modo da avere la massima qualità dell’immagine, pur impostando un diaframma molto chiuso (F18) in modo da dare maggior nitidezza alla linea dell’orizzonte (quindi maggior profondità di campo). Come conseguenza delle impostazioni scelte (lavoravo in “modo A”, priorità di diaframmi), ottenni un tempo di apertura dell’otturatore sufficientemente veloce per congelare il movimento del piccone. Per la composizione optai per un classico in fotografia, dando peso al soggetto a circa 1/3 dell’inquadratura.

Dati tecnici

Data: 11 Novembre 2013
Corpo macchina: Nikon D3s
Obiettivo: Nikon 17/35 f2,8
Lunghezza focale al momento dello scatto: 17 mm.
Apertura diaframma: F16
Tempo otturatore: 1/200
Compensazione esposizione: 0
Sensibilità sensore: ISO 200
Modo di ripresa: A (priorità di diaframmi)

 

Viaggia con Davide Pianezze: www.fattoreulisse.com