Quando un libro può cambiare il corso della vita

Sembra ieri eppure sono passati sedici anni da quel giorno in cui mi trovavo seduto al lato del mio amico e maestro di fotografia Mauro Burzio ad analizzare con un lentino alcune sue fotografie. Le avevamo appena ricevute dal laboratorio e dovevamo selezionarle per inviarle in redazione. Immagini di paesaggi incredibili, dove i cieli erano tanto densi da risultare irreali. Viste oggi su un monitor non lascerebbero dubbi a un’eccessiva elaborazione digitale, eppure erano diapositive. Le aveva scattate al nord del Chile, dove l’aria rarefatta e l’assenza di umidità azzerano le distanze e rendono più intensi i colori. Era nata così la mia curiosità per un Paese del quale sapevo ben poco. In quei giorni mi venne casualmente regalato un libro al quale mi affezionai immediatamente e che nel tempo lessi più volte, si intitolava “Le Rose di Atacama”, di Luis Sepulveda. Era la raccolta di una trentina di racconti ambientati in Chile che parlavano di persone comuni, ma straordinarie allo stesso tempo. Le storie, nonostante occupassero lo spazio di pochissime pagine, avevano avuto su di me un poter ipnotico, al punto da farmi finire il libro all’alba della notte stessa in cui l’avevo estratto dalla sua carta infiocchettata. Uno dei racconti parlava di un evento unico e straordinario che accade con una frequenza media di tre/otto anni. Sono sufficienti pochi minuti di pioggia, trasportata dalle correnti oceaniche, per far germogliare i semi rimasti interrati tra sabbia e pietre e trasformare le colline del deserto più arido della Terra, il Deserto di Atacama, in un tappeto sconfinato di fiori.
In quel periodo stavo prendendo seriamente in considerazione l’idea di affrontare un cambio radicale della mia vita professionale. Era forse arrivato il momento di abbandonare tutto e ricominciare da zero. Quelle foto e quel libro rappresentarono la spinta definitiva per consegnare la lettera di dimissioni e acquistare un biglietto aereo per Santiago del Chile.
Ero cosciente del fatto che stavo andando incontro ad un progetto folle, in quanto sarei partito per un Paese a me quasi sconosciuto con l’idea di tornare in Italia e pubblicare un libro come mio primo lavoro di fotografo professionista. Quando mi trovai a definire il periodo del viaggio, che sarebbe durato tre mesi, pensai al racconto delle Rose di Atacama. Cercai informazioni sul periodo della possibile fioritura e conseguentemente definii tempistiche e itinerario.
Quando preparai i bagagli presi con me anche il libro di Sepulveda che rilessi durante il viaggio ogni volta che mi trovavo nei luoghi da lui descritti. Vivevo tanto intensamente quelle letture serali da sentirmi parte del racconto, come se per qualche istante mi trasformassi in uno dei personaggi descritti.
Dopo cinque giorni di permanenza a San Pedro de Atacama, che poco ha in comune con il deserto di Atacama in quanto si trova addirittura in un’atra regione, la televisione nazionale annunciò che il mattino stesso un acquazzone si era abbattuto in un’area compresa tra Copiapò e La Serena, nel cuore del deserto. Partii alle 3:00 del giorno successivo per raggiungere la zona e fare un sopralluogo. Avevo percorso quella stessa strada, la Panamericana 5, un mese prima quando da Santiago raggiunsi il nord del Chile per iniziare il mio progetto. Arrivai sul posto poco dopo l’alba. Non mi sembrava possibile che in sole 24 ore quelle colline, fatte di pietre insignificanti e monotone, si fossero potute trasformare nello spettacolo che mi circondava a 360°. L’unica spiegazione che riuscivo a darmi osservando ciò che accadeva intorno a me la trovavo nella parola “miracolo”.
Tornai all’alba del giorno successivo per guardare e fotografare ancora una volta quella fioritura che il sole del deserto avrebbe presto seccato e abbandonato al vento. Sul terreno sarebbero rimasti nuovi semi che avrebbero pazientemente atteso il loro momento per ridipingere il deserto e dargli vita.
Quella sera rilessi il toccante racconto “le Rose di Atacama” di Luis Sepulveda, il mio caro e rimpianto compagno di viaggio di quei giorni.

 

Il momento dello scatto

Erano passati pochissimi mesi da quando avevo acquistato la mia prima macchina fotografica digitale professionale. Era una Nikon D2x. La qualità offerta dal suo sensore, se utilizzato alle basse sensibilità, continua a fare concorrenza alle ammiraglie di oggi.
Arrivato sul posto lasciai l’auto sul ciglio della strada e mi addentrai in quell’immenso tappeto di fiori fuxia, facendo attenzione a non calpestarne nemmeno uno. Trovai un fiore differente da tutti gli altri, come se si fosse perduto durante quell’esplosione di germogli. Il vento soffiava a raffiche. Mi chinai fino ad appoggiare le ginocchia e i gomiti a terra cercando un po’ di spazio tra i fiori. Trovata l’inquadratura feci diversi scatti. Per mantenere alta la qualità dell’immagine fui costretto a impostare una sensibilità bassa del sensore e per dare profondità di campo chiusi il diaframma a f16. La conseguenza fu una velocità di scatto dell’otturatore di 1/80 di secondo, tempo non sufficiente per “congelare” i fiori che continuavano a oscillare al vento. Attesi pazientemente che il vento si calmasse, scattando tra una folata e l’altra, guardandomi continuamente intorno con incredulità e meraviglia.

 

Dati tecnici

Data: Settembre 2005
Corpo macchina: Nikon D2x
Obiettivo: Nikon 17/55 f2,8
Lunghezza focale al momento dello scatto: 35 mm.
Apertura diaframma: F16
Tempo otturatore: 1/80
Compensazione esposizione: 0
Sensibilità sensore: ISO 100
Modo di ripresa: A (priorità di diaframmi)

 

Viaggia con Davide Pianezze: www.fattoreulisse.com

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